Critica


Nuditate nuditates

Corpi nudi leggibili in maniera ambivalente, dicotomica, fra bellezza e fragilità. Corpi a cui Pizzardi, pittore che conosce il mestiere, ritorna consapevolmente negli anni fra il 2001 e il 2015, dopo un radicale abbandono richiesto  dal mercato, dal gusto, dall’Accademia, dalla Milano antipassatista degli anni ‘80, dal motore che macinava novità prima che, alle soglie del XXI secolo ci si fermasse un attimo a guardarsi, ci si perdesse nell’eclettismo postmediale privo, finalmente, di dogmi. Un recupero faticoso e affascinante di proporzioni e di armonia, una pulizia interiore prima che di pennello con la quale l’artista passeggia agevolmente nelle regioni di un antropocentrismo che, alle nostre latitudini, ha perfino modellato un Dio che si incarna – sublime paradosso di un particolare monoteismo - potenza culturale di un intero ecumene plasmato dall’Ellade intorno all’idea e al suo fenomeno carnale di άνθρωπος. Un recupero, anche, ancestrale in cui pariteticamente si fronteggiano corpi maschili e femminili che richiamano il mito ritornando all’origine, segnando l’inizio del pluriennale percorso oggetto di questa mostra. Le prime tele che, per comodità di formato, sono state allestite nel secondo ambiente della galleria, mostrano colori accesi e quasi acidi che ricalcano lessemi classici organizzati in una sintassi anticlassica, come fredde fiammate ci turbano e al contempo ci allontanano dalla riflessione in quanto rendono i nostri sensi partecipi sollecitandoli più del pensiero (ecco la vampata giallo/rosa che costruisce la figura di Elena, o l’azzurro polvere opacizzato dal tempo come un encausto pompeiano su cui è ritagliata la figura di Antinoo). Man mano che ci si avvicina a periodi più recenti i corpi mostrano l’ingannevole territorio della bellezza caduca, della sua vulnerabilità ma anche dell’offesa corporale, del peccato, del sacrificio. Sono composizioni calcolatissime, superbe finzioni sceniche tratte da fotografie con costanti riferimenti alla grande pittura figurativa del passato in cui la luce gioca lo stesso ruolo salvifico di Caravaggio, di De Ribera, di Stomer, in cui le ombre si condensano in sudore e sgomento del materiale epidermico che Pizzardi crea come fosse un demiurgo; col piacere, con la responsabilità di una vera e propria creazione. Corpi amati, agognati, costruiti e accarezzati sulle tele pennellata dopo pennellata, velatura dopo velatura, manipolati amorevolmente ma che consapevolmente impauriscono l’artista per la loro fragilità, per il labile confine che separa ciò dalla manipolazione sadica altrettanto piacevole. Più volte nelle nostre discussioni Pizzardi richiamava l’esperimento della Abramovic, la consapevolezza terrifica di quel meccanismo per il quale il singolo abdica all’individualità che si liquefà osmoticamente in un gruppo unitario ed omogeneo, e che agisce delegando ad esso la responsabilità di un qualsiasi atto. Dinamiche complesse che sottendono studi psicologici e sociologici ma che, anche nell’arte, hanno mostrato fino a dove possa essere spostato il limite del godimento nell’esercizio del dominio su un corpo indifeso.

 Mariateresa Zagone

 


Genesi

Genesi è l’origine del tutto, dalla radice greca γεν di γιγνομαι = nascere; è il primo libro della Torah del Tanakh ebraico e della Bibbia cristiana...”In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Genesi è anche, nel linguaggio estetico, il processo che sta alla base della creazione di un’opera d’arte che, nel caso di Giuseppe Pizzardi, è un percorso ragionato, un modo di comprendere l’Universo attraverso la sua rappresentazione noumenica nel microcosmo della tela, una forma di conoscenza della realtà che avviene tramite la misura dello spazio.
Le opere di questa mostra “ascetica” sono schemi bidimensionali sui quali il segno si riappropria della sua ancestrale valenza di simbolo in una dimensione meditativa, sono eventi visivi in cui l’artista getta via la sua mano per dipingere con la mente in un faticoso processo di scarnificazione che rinuncia all’abilità imitativa e in cui il perimetro grafico o cromatico fa della pittura un luogo riflessivo, di ricerca dell’assoluto. La superficie delle tele è quieta, vi si può leggere la memoria filtrata di esperienze visive che vanno da Bisanzio a Rothko, dal gesto assoluto di Fontana agli Achromes di Manzoni; la materia con la quale sono realizzate (una sovrapposizione di smalti, acrilici, colle) è percettiva, quasi una sedimentazione priva di peso cui è affidato l’arduo compito di trasformare l’invisibile in visibile.
La determinata, quasi spietata eliminazione dell’aspetto decorativo o semplicemente attraente passa anche attraverso il colore sublimato dalla rarefazione dei bianchi, dei tortora e dei rosa che man mano emergono dal profondo come in un procedimento psichico, così come dalla luce dell’oro in un confronto dialettico con l’assoluto di cui, da sempre, è simbolo.
La calibrata progettazione di queste tele ce le fa percepire come sature di silenzio, Pizzardi infatti non agisce in maniera empirica o istintiva e pone lo spettatore sulla soglia di un infinito che non può che trovare epifania nel simbolo, spia di una caparbia ierofania di quello stato di grazia arcaico in cui l’uomo sentiva la sua appartenenza cosmica al vivente.
L’uovo, la croce, la freccia che indica lo struggente percorso a ritroso del molteplice all’Uno, come pure le cifre o le lettere si accampano su queste cartografie di reminiscenze lontane caricandosi del valore di archetipi ampliando così la dimensione dell’inconscio individuale.
Di certo Genesi non è una mostra facile per chi cerca banali virtuosismi tecnici, ci presenta paesaggi trascendenti davanti ai quali è necessario un silenzio contemplativo, come se stessimo guardando un tramonto o una notte di luna. Alcune tele sono state pensate come trittici e, come trinità aconfessionali, hanno la valenza di presenze remote che possiamo solo intuire e mai cogliere pienamente, luminosi vuoti che ci portano oltre la ragione del sublime.
I pochi colori, le geometrie essenziali, il gesto calibrato e il senso meditativo di sospensione del tempo con i quali Pizzardi cerca di circoscrivere l’incorporeo nel corporeo sono le chiavi di lettura di ques  ta personale aniconica dall’impronta esicastica.

Mariateresa Zagone

 


 

   Pittura postmediale                                                   

Sotto i nostri occhi si va formando, in quest’epoca dominata dalla saturazione delle immagini e dalla commistione dei linguaggi, quella che può definirsi la “pittura postmediale”, una pittura che, abbandonata ogni costrizione di coerenza allo stile, o agli strumenti, risponde solo ad un progetto concettuale, libera poi di utilizzare tutti gli stimoli che provengono da varie esperienze linguistiche e, di esse, tutte le parole e i procedimenti.
È, quella che si sta strutturando, una pittura meticcia che, se da una parte resta fortemente legata ad un individuale e soggettivo progetto comunicativo, al tutto razionale e programmato (sta qui la grande lezione del concettuale che, tuttavia, non più fa a meno dell’opera, ma in essa ora incarna la sua idea), dunque unitario e coerente, dall’altra rappresenta uno sviluppo ulteriore, un secondo passo direi, idealmente legato alla felice stagione della Transavanguardia con cui, nella seconda metà degli anni Settanta, non solo venne celebrato il cosiddetto “ritorno ai pennelli”, ma la pittura fu libera (forse, meglio si direbbe, “liberata” dall’assedio del manierismo concettuale) di riacquistare un proprio respiro fisiologico. L’arte non doveva per necessità andare avanti per via di stupore e di novità capaci di determinarlo né, come indicato qualche anno prima con la Citazione Colta, guardare indietro attingendo le proprie immagini dal museo, ma poteva guardarsi “attorno”, rompere le collaudate categorie (da qui il “trans”) e, si direbbe, a suo piacimento mischiare le carte. Ciò, con la Transavanguardia, la pittura fece restando sempre nell’ambito della pittura, mischiando ogni possibile suggestione, con accostamenti spiazzanti nel segno dell’ibridazione pittorica.
Diversamente oggi, la “pittura postmediale” esce dal suo recinto e si lascia contaminare non soltanto da ciò che la storia della pittura ci ha lasciato in eredità, rompendo finalmente la barriera della incomunicabilità tra astrazione e figurazione, ma da ogni altro campo di esperienza che attiene alla comunicazione visiva (fotografia, computer art, moda, pubblicità, televisione, fumetto) e soprattutto dalla realtà presente che è l’unica vera avanguardia concettuale e visiva.
Tra i tanti esempi che in questo senso si possono rintracciare sul campo internazionale, certamente un posto di rilievo tocca a Giuseppe Pizzardi (Trapani 1965) un artista a cui molto devono essere serviti gli studi a Brera, dove si è diplomato a ventidue anni, soprattutto per quel che riguarda l’ansia di una continua ricerca espressiva, e al quale molto serve la sua capacità di riflettere sull’esperienza del mondo in cui vive.
A questa pittura postmediale o, se si vuole, felicemente “meticcia”, Pizzardi è arrivato per successive accumulazioni che lo hanno portato a sperimentare con successo ricerche nel campo della fotografia, della elaborazione computerizzata, della grafica pubblicitaria. Quello che potrebbe apparire una sorta di eclettismo, nel senso cioè di una mancata definizione del proprio linguaggio, è, al contrario, per Pizzardi, uno sviluppo coerente di un’idea che da sempre lo ha portato a riflettere sulla duplice dimensione umana, quella relativa alla sfera materiale e spirituale, con particolare attenzione al fenomeno portante della sessualità, della sensualità e dell’erotismo. Da qui, il suo indugiare, attento e controllato, sul corpo umano.
Ma prima di questo felice approdo c’è da tener conto della sua precedente produzione durante la quale, certamente spinto da una forte tensione spirituale e forse anche religiosa, l’artista a lungo si è soffermato su una pittura che metteva a profitto varie suggestioni: dagli stilemi propri di un Mimmo Paladino (si vedano “Angeli e Demoni” o “Divina mente”), ai segni alchemici di Bruno Ceccobelli (“Il Santo”), dalle concrezioni terrose di Tapies, ad una rilettura della astrazione che si rifaceva alla tradizione italiana.
Fu quello il periodo di una pittura, si direbbe “mistica” (si veda “Terra Santa” o “Corpus Domini”), durante il quale l’artista, con notevoli esiti (convincenti “Oltre la porta” e “Progetto 1”) era mosso da una tensione verso l’assoluto, che andava inseguendo con l’uso di archetipi, di simboli magici (“La nascita del Santo”), e soprattutto con l’approdo ad una astrazione di grande qualità compositiva, equilibrata nelle forme (esemplare è “Natura morta 13,5”), tenuta sempre sotto controllo, anche se tra le sue vene lasciava circolare non solo una forte emozione, ma anche una silenziosa inquietudine.
Era quello il periodo in cui l’artista affrontava l’irrisolto e irrisolvibile problema dello stare nel mondo dell’uomo, creatura al centro di ogni cosa, ma pur sempre creata. A questo puntava quella spirituale stagione astratta, al confronto dell’uomo con qualcosa che lo sovrasta, alla scoperta di una verità che sfugge sempre, alla domanda di un perché che non trova risposte.
Forte di questa straordinaria esperienza, che è al tempo stesso spirituale, concettuale e sintattica, Pizzardi, sempre affascinato dalla messa a punto della identità umana, dalla sua complessità, che è tragica e felice al tempo stesso, senza mai abbandonare i pennelli e la pittura, nella quale cominciava a far capolino anche la scrittura, ha cominciato a percorrere, in duplice direzione, la strada della fotografia.
Da una parte l’indagine fotografica viene condotta a livello formale, sperimentando le tecniche di dissolvenza, di sovrapposizione, e di sopraesposizione, i giochi delle luci e delle ombre, i colori lividi con cui cattura non soltanto i primi piani deformati di una mano, ma anche immagini di realtà (un cancello con i suoi riflessi) rese come pura astrazione.
Dall’altra si moltiplicano gli scatti con cui cattura il corpo, maschile e femminile. Sono nudi senza pudore che mettono in risalto i genitali, quelle che si definiscono le “parti intime” del corpo. Senza pudore, ma anche senza malizia. L’indubbia carica sensuale ed erotica di queste immagini, viene così quasi riscattata da una sorta di pura innocenza che sta a dimostrare come quello di Pizzardi sia un percorso di conoscenza della carnale fisicità non più, platonicamente intesa, come la gabbia dello spirito, ma al contrario come unico possibile veicolo dei sensi e dei sentimenti e, soprattutto, come veicolo della vita: il corpo che genera.
Su queste foto seguita a lavorare l’artista, sottoponendole ancora alla manipolazione del computer che elabora forme nuove, colori innaturali, facendo ricorso alla tecnica del close up, primi piani egualmente dedicati ai volti, ai particolari del corpo, una mano, il pube, il ventre materno, l’accoppiamento sessuale.
Come correttamente notato da Carmen Caruso sembra che Pizzardi stia attraversando il suo Giordano, liberandosi “dall’oppressione del peccato originale”, da tutti i tabu che hanno da sempre accompagnato la nudità e la sessualità. Sono questi gli appunti, si direbbe i disegni preparatori, della più recente stagione pittorica dell’artista che, sapientemente mette a profitto tutte le sue esperienze, quasi restituendo alla nudità e alla sessualità un suo stato davvero “originale”, come esigenza cioè di natura, come lo è il cibo, e non più di cultura.
A pensarci bene non si capisce perché il bisogno primario per la sopravvivenza, cioè il cibo che serve per sfamarsi, possa e debba essere celebrato in pubblico, come qualcosa di socialmente convenevole, mentre l’altro bisogno primario, individuale e, come diceva Schopenauer, collettivo, imprescindibile per la esistenza del genere umano, quello del sesso, debba essere celebrato in segreto. In sostanza: perché si va allegramente e senza pudore, al ristorante per soddisfare tutti insieme un’esigenza vitale, mentre la pratica sessuale resta circondata da un alone di segretezza e di peccato?
Non è un fatto di natura (gli animali non umani fanno esattamente il contrario), ma di cultura, cioè un portato dell’esperienza che ha condotto al dimezzamento del valore complesso della persona umana, distaccando il corpo dall’anima e quasi rendendole antagoniste, o, se si vuole, protagoniste di un duello in cui necessariamente debba esservi un vinto e un vincitore.
Sembra essere questa domanda alla quale la pittura di Pizzardi da una risposta, non certo per affermare la necessità di un “ristorante del sesso”, ma per suturare quella frattura tra spirituale e carnale, per liberare il corpo da quei pregiudizi di peccaminosità che lo circondano.
E tanto l’artista fa con una pittura di straordinaria efficacia, restituendo innocenza al corpo nudo, come benissimo ci mostra in “Eden” che non parla tanto di un paradiso perduto, ma di una condizione da ritrovare.
Una pittura, quella di Pizzardi, estremamente complessa, in cui come legna al fuoco, l’artista mette a profitto tutti i suoi legni espressivi, per un incendio che coinvolge e convince. Una pittura che attinge a piene mani dalla monumentalità michelangiolesca di certi particolari (“Elena” o “Giuda”, così come dalla mediterraneità picassiana, (“Bagnante”), dall’uso di scritte pubblicitarie di matrice pop (“Fire” o “Oloferne”), alle liquefazioni alla maniera di Dalì, e che oscilla tra il passato e il presente (si veda il bellissimo “My Time”), tra il pudore e la spudoratezza, tra la malizia (“Cunnilungus”) e l’innocenza, tra l’ironia (“Che fortuna”) e la sofferenza (“In mia presenza”). Oscilla con piena consapevolezza concettuale tra una linea strettamente figurativa realista e una pura astrazione (si veda “For sale 2”).
La sfida di Pizzardi è quella di far convivere, in un discorso estremamente coerente e intelligente, frutto di una ricerca che assorbe la lezione di artisti come Davide Salle, una rinnovata figurazione postmediale con la tecnica del montaggio e del combine-painting di marca dadaista.
Pizzardi sa che l’immagine è frantumata in mille rivoli concettuali e compositivi; che l’identità dell’uomo è diventata pura astrazione simbolica; che l’uomo stesso e la sua immagine hanno perso la loro centralità, sconfitti proprio dal diluvio di immagini che hanno invaso il mondo. Proprio a questa deriva la sua pittura cerca di fare argine e, mettendo in armonia l’esperienza reale con il racconto mediale, tenta una resistenza di identità contro la frantumazione dell’io.
E se nella sua stagione puramente astratta e spirituale si avvertiva la voce di un uomo che, con la sua esperienza carnale, si poneva delle domande, oggi con questa stagione che si svolge sul crinale della figurazione corporea, si intuisce evidente la voce di un uomo che, con la sua esperienza spirituale, trova delle risposte.
La frattura così si ricompone, attraverso una pittura forte e delicata al tempo stesso, innocente e spregiudicata, che per restare fedele ad una sua idea, utilizza tutto ciò che serve, ai limiti della incoerenza, ma sempre legata alla profonda coerenza di un progetto che è, al tempo stesso, formale e concettuale.

Lucio Barbera


 

 

Giuseppe Pizzardi in “Carne”: la Cultura del Corpo



Provo sempre un piacere del tutto personale, quando mi trovo a  scrivere di un artista che prima di tutto è un amico.
Oggi vi inviterò a guardare dal vero o dal video le opere di un pittore dalla storia insolita.
Chi è dentro i meccanismi delle Accademie d’Arte, ad esempio, capirà perfettamente a cosa mi riferisco.
In genere, il percorso artistico, poetico e personale evolve dalla figurazione, studiata spesso in maniera ossessiva, alla distruzione della figura stessa, cioè all’'astrattismo o, meglio ancora, all'informale, materico e “grezzo” nel senso di non ripassato, istintivo, gestuale, primordiale.
Giuseppe Pizzardi è un artista di origini trapanesi che ora vive e lavora a Patti (ME).
La sua formazione è avvenuta all’Accademia di Belle Arti di Brera (MI) e, per quegli strani giochi del destino che incrocia le vite per insegnarci qualcosa che ancora non siamo in grado di comprendere, si è ritrovato, infine, nella sua Terra, la Sicilia.
I primi lavori di Pizzardi sono totalmente votati alla ricerca del gesto, dell’immediatezza, all'assenza della figura di riferimento, al disorientamento estetico  che la “distruzione” dell’immagine tradizionale comporta nell'ignaro spettatore.
Man mano che la sua ricerca procedeva, l’interesse per quel corpo ignorato in gioventù è riemerso in tutta la sua tellurica potenza. E’, il suo, un corpo che chiede giustizia, perché lungamente sacrificato, un corpo fatto di carne nuda, esibita, cruda nella sua sincera verità.
Un corpo umano e non quel post-umano, artificiale e ibrido con cui troppo spesso oggi ci troviamo a fare i conti. Ma un corpo pieno di ferite, di sangue, di lacrime e lacerazioni sull'epidermide e sull'anima che risorge dalla tela attraverso le mani del Maestro siciliano.
La bellezza dell’essere passa attraverso la materia umana e pittorica e non si può restare certo indifferenti al rapimento emozionale che si scatena davanti ad essa.L’elevazione spirituale deve la sua ascesi al grezzo diamante biologico di cui siamo composti, non possiamo pensare di procedere ignorando la nostra carne.

 

Camelia Nina


 

Un segno d’amicizia


“…in letteratura ,in musica, in pittura, siamo contemporanei di tutti gli stili.”
E. M. Cioran


Attraverso crisi e ripensamenti si dispiega l’opera di Giuseppe Pizzardi.
Le interruzioni e le ripartenze dimostrano l’inquietudine dell’artista che, nei momenti più bui, diventa quasi una volontà di resa, di abbandono della pratica pittorica per cadere, metaforicamente, in un “buio da percorrere ad occhi chiusi attraverso antichi sentieri per potersi eclissare nel regno dell’ignoto”. Ma ad ogni interruzione corrisponde una ripartenza che è una precisa volontà perchè, praticare l’arte è una necessità che Pizzardi ha sempre soddisfatto a dispetto dei suoi umori neri e delle sue “ataviche paure”. Una necessità soddisfatta anche per poter dire che dalle sue proprie “mani salirà la traccia del futuro”. Un futuro fatto di private vicende e pubbliche soddisfazioni da condividere sempre con l’altro se stesso, l’altra metà dell’artista, quello che dimostra di esserci sempre, basta guardare tutta l’opera di Pizzardi, che si divide in mille anime e che si manifesta in una opposizione stilistica tra figurativo ed astratto, una tensione che ha innervato tutta la produzione dell’artista. Questa conflittualità genera nell’anima di Pizzardi una scissione che è quasi ideologica, una ricerca continua dell’altro se, per poterne diventare finalmente amico.
La lunga strada della maturazione artistica è un processo di amicizia con se stessi, una risoluzione di conflitti che porta, come diceva Brancusi, a raggiungere uno stile semplice attraverso una complessità risolta. La maturazione, se non immediata e precoce, è un processo artistico lento, un processo di riconoscimento di se che implica la realizzazione piena delle varie nature che coesistono nell’animo dell’artista. In Giuseppe Pizzardi le anime artistiche assumono di volta in volta varie fisionomie che gli permettono di esprimersi attraverso la pittura, la fotografia, la scultura, la poesia, la musica, la prosa scritta, la grafica computerizzata, in un trasversalismo che tende a rendere l’opera compiuta una vera e propria “summa” di tutti questi mezzi espressivi.
Questo processo sincretico è evidente in tutta la produzione più recente dove vengono fissate sulla tela, con tecniche tradizionali, visioni fotografiche ed inquadrature filmiche, elaborazioni computerizzate ed elementi calligrafici, il tutto espresso attraverso colori acidi e violenti con contrasti tonali esasperati, giocando con schemi di colori omologhi o in separazione complementare, sfruttando anche sistemi a triade o a tetrade, per fornire il massimo grado di flessibilità cromatica, senza mai rinunciare a quegli effetti materici, dalla pennellata pastosa, che sono al contempo, per Pizzardi, tratto distintivo e spasmodica ricerca.
L’inquadratura concentra l’attenzione su piccole porzioni di spazio, in genere corpi nudi, dettagli dipinti su tele di piccole e grandi dimensioni, così da non permettere all’occhio di cogliere subito l’essenza delle cose, confondendo lo sguardo tra lo sfondo ed il soggetto posto “di quinta” , con numeri e scritte che fanno capolino diventando elementi grafici ornamentali.
Il gioco dei rimandi diventa multiplo, facendo leva sulle ombre e le linee di contorno, la cornice, che a volte non incornicia perché anch’essa dipinta ed il titolo stesso che è evidenziato all’interno del quadro quando stabilisce rapporti logici con il soggetto oppure, è assente dall’immagine quando, nella sua stranezza, crea un ulteriore significato, diventando significante in una accezione quasi decostruzionista.
Per l’artista non fa alcuna differenza se questi processi, applicati più o meno consapevolmente, esitino in un quadro figurativo o in un’immagine astratta, perché anche quando Pizzardi produce quadri più vicini al neo-impressionismo, dividendo le proprie anime,in verità attinge allo stesso bagaglio, alla stessa cultura che sottende la produzione figurativa.
Questi quadri la cui realizzazione si colloca a cavallo tra gli anni 80 e 90, dichiarano il loro debito a certe avanguardie italiane, insistendo su tematiche religiose ed evidenziando la suddetta doppiezza dell’ispirazione dell’artista, come ampiamente dimostrato da titoli come “Angel-Devil” o “Divina mente”, fino ad arrivare a produzioni fotografiche più propriamente di ricerca, la realizzazione delle quali ha da sempre camminato parallelamente alla attività pittorica.
Giuseppe Pizzardi con la sua intera attività riflette sulla modernità dell’opera d’arte, che non è data dai suoi contenuti, ma dalla capacità della stessa di entrare in un circuito che, in senso olistico, declini dall’opera oggetto d’arte fino al collezionismo attraverso la critica, il pubblico ed il mercato, determinando il corpo dell’opera d’arte moderna. Attraverso la pratica l’artista aggiunge la propria personale speculazione, riflettendo sulla complessità di un soggetto attraverso l’interdisciplinarità che è uno degli aspetti più evidenti di questa nostra contemporaneità.


Giovanni Rigano         

 


 

Artetime

Inquietudine e sensualità nel “corpo” di Pizzardi

Una grande tensione vitale, ma anche una serpeggiante inquietudine, ha portato lungo la vita artistica di Giuseppe Pizzardi a sperimentare modi e forme diverse, ad aprirsi e a ripartire con nuove idee. L’artista stesso dice: ”Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne altre”, si tratta di una forza in più di un preciso segno dei nostri tempi di un “provocare” per sperimentare, per trarne alimento.
Nei dipinti di Pizzardi c’è un forte richiamo alla pittura franco-spagnola di Francis Picabia e Pablo Picasso e messicana di José Clemente Orozco e David Alfaro Siquerios, non tanto nelle tematiche quanto sul modo di trattare i “corpi”. Donne, dall’asciutto corpo nudo o nelle loro sgraziate intimità di interni in penombra nelle cui forme si legge l’emozione e il gioco plastico delle lettere del titolo del dipinto oppure intonazioni cromatiche mediterranee intrise d’inquietudine e sensualità. Corpi michelangioleschi disposti su diversi piani di luce e stratificazioni compositive che probabilmente provengono da un’idea elaborata al computer che si concretizza poi con una serie di “veline” sulla tela.
La scrittura come elemento decorativo-pittorico ricorda le pergamene cinesi con le figure attorniate da ideogrammi che completano la composizione pittorica (piuttosto che la moderna graphic-art dei manifesti pubblicitari); un contrasto con la sensualità palese della nudità di corpi ossessionati dai riferimenti michelangioleschi; tagli di luce che annullano la rotondità delle forme, bagliori che bruciano i colori e risaltano la profondità delle ombre. E qui che vengono fuori le lacerazioni generali del tessuto sociale e personali, l’inquietudine, la sensualità, l’accettazione dell’inerzia visiva e mentale di chi guarda, il tempo e lo spazio proiettati al di fuori di una chiusura provinciale di un’arte pubblica senza ideologie politiche, permeata di emozioni.
Alcuni colori sono “acidi” e “ipnotici” quasi a sottolineare o attenuare la statuarietà e la compattezza delle forme a vantaggio della plasticità delle torsioni dei corpi, che pur calati prepotentemente dentro la più evidente e materiata liquefazione, rimangono umani.
Un bambino che osserva le tele dei grandi pittori non si sofferma certo a descrivere la sensibilità cromatica, le forme, il movimento… o tenta una teorizzazione, tutto sta lì, davanti a lui a risvegliare le sue emozioni, emozioni dell’arte universale, capìta dall’intellettuale che troverà varie stratificazioni di lettura o dall’ingenuo che sarà percorso da un brivido emozionale.

Giuseppe Buzzanca 

 


 

Valeria S. Lombardi
Dott.ssa in storia dell'arte contemporanea
laureata c/o Università Statale di Milano

L'arte pittorica di Giuseppe Pizzardi sembra generarsi da sè, talmente è completa, meglio dirsi a tutto tondo: è equilibrata, è ironica, grafica (con un lieve rimando quasi alla Pop Art). Le figure sono i veri assoluti protagonisti: sono tenacemente scandagliate da millesimali dettagli dati da un'acuto gioco di chiaro scuro, che riesce così ad impreziosire facendo risaltare lembi di pelle, che sembrano persino nelle vene, generare nuova linfa vitale. E un'arte matura, acuta in tutti gli aspetti con un rimando anche a quello che fu lo splendido esempio lasciato da Bacon:riaffiora molto spesso in opere di Giuseppe Pizzardi il colore arancione, ma in più qui, la solitudine interiore, o meglio il vuoto esterno è esposto non con uno smembramento e dissoluzione corporea, bensì l'opposto:corpi tenacemente inscritti nelle loro membra che affrontano il da farsi, si guardi ad esempio il dipinto "The Fire":dove la donna, il suo terrore è unicamente dato da quel colore acidamente antinaturalistico carico di tutto quel calore che si sta divampando presso di lei, ma è lì che assiste la scena, travolta, presa, (si guardi il seno destro quasi spaccato dal fuoco). Ma in questa donna si ritrova il medesimo orgoglio rappresentato da Pablo Picasso in"Guernica"si, il dolore per un atto ingiusto, ma poi la fierezza di un popolo... e contando che il nostro pittore è siciliano si può trovare così un'ipotetica e quanto mai un'assonanza. Forse l'unico dato che nell'opera di Giuseppe Pizzardi, un pò stona in questo caso è la scritta "the fire", ma può essere anche solo un voluto rafforzativo alla scena in sè. E per sottolineare la bravura, il virtuosismo di Giuseppe Pizzardi si guardi il "David" ritrovando tutto quanto detto ed il di più :ovvero Giuseppe Pizzardi.
Plaudo la sua arte e soprattutto il taglio della sua mano.

 


 

Corpi

Ho conosciuto Giuseppe Pizzardi circa sette/otto anni fa quando mi fu presentato da una mia cara amica, nonché sua collega, a quella epoca entrambi insegnanti al Liceo Artistico di Messina. Ricordo che andammo a casa sua, un tipico monolocale da single con le pareti tappezzate di sue opere.
Le tele che vidi all’interno della sua abitazione mi colpirono per i colori forti e violenti che quasi stridevano coi temi d’ispirazione “spirituale” trattati. Intriganti mi apparvero, inoltre, alcuni segni misteriosi, simbolici che di tanto in tanto affioravano da quel colore corposo e materico: “croci infisse nella materia colorata” come egli stesso li definisce nell’introduzione del suo sito Internet.
Quell’incontro, in ogni caso, fu breve e non mi diede modo di approfondire e apprezzare la ricerca artistica che in quel momento egli stava portando avanti.
Qualche anno più tardi, in un tiepido pomeriggio estivo, lo vidi arrivare nella mia galleria. Aveva con se la moglie e il figlioletto. Al momento non lo riconobbi, ma quando si presentò, subito riecheggiarono nella mia mente le tele che avevo visto a casa sua. Non risiedeva più a Messina e aveva dovuto lasciare il Liceo Artistico privato per insegnare alle scuole medie statali.
Quella volta decisi di approfondire meglio l’operato di Giuseppe. L’occasione giusta fu la retrospettiva che proprio quell’anno egli tenne al castello Svevo-Aragonese di Montalbano Elicona.
In un grandissimo salone vi erano esposte circa sessanta tele che ripercorrevano pressappoco gli ultimi sedici anni della sua pittura.
In quell’ambiente “caldo” ma spazioso, si consumò probabilmente, quello che sarebbe stato l’ultimo atto di un periodo che egli stesso definiva lacerante, per quel continuo strapparsi dall’anima, per poi depositarli sulla tela, tutte le inquietudini e le angosce di una ricerca continua dell’assoluto, di risposte su una “Verità” che nessuno gli poteva dare; un desiderio di spiritualità che si scontrava con l’essere “materiale” e “carnale” del quotidiano.
Quel continuo ricercare culminò con il dipinto “Corpus Domini”; una croce bianca con applicata sopra una corda, anch’essa bianca, slegata. La simbologia risultava piuttosto chiara. Quel dipinto rappresentava il districarsi e il liberarsi da quell’ossessiva ricerca che lo aveva attanagliato per lunghi anni. Fu la svolta. Liberatosi da quel travaglio interiore cominciò a partorire le nuove tele. In una visione quasi michelangiolesca i corpi, spesso monumentali, si liberano dall’oppressione del peccato originale, nudità a volte pagane e classicheggianti, acquisiscono in uno strano gioco di figura-sfondo, un erotismo e una sensualità genuina, quasi ”pura”.
Germina in lui anche l’esigenza e il desiderio di far convergere in un’unica espressione artistica le ricerche di tipo fotografico e di computer graphic che già da qualche tempo stava portando avanti in maniera parallela e autonoma alla pittura.
I corpi, ormai liberi dal senso del peccato, si espongono senza pudore, diventano oggetto di ricerca e indagine razionale in un continuo e ambiguo alternarsi di pieni e vuoti, di scritte che diventano forme e autocitazioni e allo stesso tempo astrazione poiché “raffigurazione di un suono”. Compaiono piani “magici” che trasformano l’astrazione in realtà. In queste tele è continua l’ambiguità tra astrazione e figurazione nel variare del punto di vista che talvolta rivela la figura e talvolta la nasconde, la trasforma in qualcos’altro che il nostro occhio, il nostro sistema percettivo tenta continuamente di ricostruire, di riportare alla realtà. Ma se da un certo punto di vista questi dipinti nascono da una ricerca razionale e sono la costruzione ragionata di interazioni tra figura e sfondo, tra citazioni scritte e talvolta persino dei rebus pittorici, ad una attenta analisi si denota un riecheggiare, nemmeno troppo celato, della ricerca artistica precedente. Questo dipinti ci appaiono così come una sintesi tra passato e presente, tra razionale e irrazionale, come se Giuseppe Pizzardi volesse dimostrarci da insegnante (quale egli effettivamente è) che esiste una possibilità di conciliare in un’unica espressione pittorica i due percorsi nei quali l’arte si è separata dall’Ottocento in poi, ovvero tra correnti di matrice espressionista e quelle di matrice post-impressionistiche.
Il prodotto finale, pertanto, risulta la sintesi di tre diverse fasi di ricerca ed elaborazione:
- ricerca fotografica attraverso la produzione o la ricerca di immagini idonee al progetto da realizzare;
- elaborazione al computer;
- realizzazione tecnico-pittorica dell’immagine realizzata.
Si avvia quindi un processo di continua materializzazione e smaterializzazione dei corpi e di visione, là dove, col variare del punto di vista o del contrasto cromatico, la sovrapposizione e ribaltamento tra gli stessi soggetti o con delle scritte, l’immagine rimane sempre al limite tra figurazione e astrazione, tra figurazione e forma.

Carmen Caruso 

 


 

Ela Caroli                                         da: “Proposte giovani” 1990


Nei dipinti di Giuseppe Pizzardi la visione si ricompone in forme geometriche equilibrate, in “pezzature” che ricordano il primo Burri con l’energia di un Tàpies; anche qui i toni cupi, terrosi indicano un’appartenenza al concreto mondo di una madre terra generatrice, ma sulla superficie della tela presenze graffianti, come torri o mani stilizzate indicano un’inquietudine che si accampa sull’apparente tranquillità della scena.


 

Massimo Occhipinti                         dal Giornale di Sicilia 1990

Nei lavori a tecnica mista di Pizzardi emerge l’asciuttezza del segno, la semplicità delle scelte formali, la tendenza alla simmetria e la presenza di scritti affioranti quasi dall’inconscio in funzione antidecorativa.


 

Giuseppe Occhipinti                         da: “Ataviche paure” 1987

I lamenti delle prefiche che recensendo le grandi mostre internazionali piangono la morte dell’arte sono arrivati fino in provincia.. Il lutto si addice alle vedove e agli orfani e panni luttuosi sciorina metaforicamente sulle sue tele Giuseppe Pizzardi.
Dal baratro in cui sembra essere precipitata l’arte contemporanea non arrivano più certezze ne speranze e ci si interroga su quale sia oggi la funzione dell’arte. Il viaggio che si appresta ad intraprendere un artista è un viaggio nel buio e i colori si trova a dover adoperare sono quelli che servono ad ispessire le ombre: pece e carbone. Su queste stesse posizioni si sono trovati alla fine degli anni’70 gli aderenti al gruppo della Transavanguardia che hanno segnato il trionfante ritorno della pittura ed Hanno forgiato una nuova generazione che ne ha assunto vezzi e vizi.
Figlio ideale di quel movimento è il giovane Pizzardi che si esprime su grandi spazi senza preoccupazioni per la forma tecnicamente orretta, che vanta la facoltà di essere eclettico e ha coscienza di mirare all’edonistico. Alcune sue opere sono disegni dilatati, altre sono corpose stratificazioni di materia grassa con giochi di trasparenze, altre non rinunciano alla figurazione.

 

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